Se voltiamo le spalle alle montagne e puntiamo al fiume di pianura. Potremmo fare incontri inaspettati…
L’avevamo incontrato in un buio pomeriggio di fine inverno. Essendo anche lui lanciatore, era venuto naturale scambiare le solite quattro chiacchiere in libertà: «Sì, certo la pianura ha il suo fascino discreto e ci vengo volentieri di quando in quando, ma volete mettere i torrenti montani e la loro incomparabile bellezza? E le trote che ci vivono dentro, poi…». Si era interrotto nel discorso guardando con immobile sguardo fisso un indefinibile punto all’orizzonte. Era evidente come stesse rivivendo nella memoria le immagini dei mille riali grandi e piccoli che amava frequentare durante la gran parte dell’anno. Dopo qualche secondo si era ripreso dall’estasi, concludendo perentorio: «Niente da fare, voi in pianura avrete pure tanti predatori a disposizione ma le regine delle acque correnti – le trote fario – le potete incontrare solo dove vado io: in montagna!». Ce ne eravamo tornati avviliti. In effetti ripensandoci bene cosa avevamo a disposizione? Cavedani e persici nel fiume sotto casa, bass e lucci nel lancone un poco più distante, aspi, perca e siluri nel Grande Fiume insieme alle cheppie nella loro stagione ma le fario, quelle, in effetti non c’erano… Giuseppe Zaletti – Beppe per gli amici – è sempre stato un cultore dello spinning al luccio e al bass e perciò sapeva bene come l’inizio della primavera fosse uno dei momenti propizi per “fregare” qualche boccalarga di taglia extra. Proprio per questo aveva da tempo preso l’abitudine di fare la sua personale “apertura” puntando ai persici trota anziché ai salmonidi. Quell’anno il luogo prescelto per la fatidica uscita consisteva in una vasta cava in disuso a lui nota da tempo, dove si estendevano alcuni riparati canneti dove i boccaloni erano soliti compiere le loro prime prudenti uscite al termine dell’inattività invernale. Beppe era consapevole che trovandosi di fronte a pesci ancora intorpiditi per il lungo inverno, avrebbe dovuto insistere più del consueto senza perdersi d’animo per sperare in qualche successo ma quella mattina la situazione si era presentata davvero ostica. Convinto delle sue possibilità aveva con pazienza e caparbietà messo in campo l’intero armamentario di esche siliconiche di cui era dotato e poi, non persuaso, aveva riprovato con minnow e crank in colorazioni naturali recuperando al rallentatore a galla, mezz’acqua e sul fondo, ma senza sortire risultati. Alla fine perciò era stato costretto a gettare la spugna e per tentare di scongiurare un incombente cappotto si era avviato con poca fiducia verso il fiume che scorreva a breve distanza: chissà, almeno lì qualche cavedano avrebbe potuto abboccare.
Fario di… fiume
Il corso aveva appena subito un piena importante e l’acqua ancora di una tinta velata stava a dimostrarlo. Da lanciatore esperto qual è, l’amico non si era affrettato a scoccare subito i primi lanci a casaccio ma si era fermato discosto a osservare la scena così da approcciarvisi nel migliore dei modi. La sua attenzione era stata attirata in particolare dal rigiro prodotto da un blocco di prismata rovinato nell’alveo che creava un interessante movimento nel mezzo della corrente. Dietro di esso un grosso ramo volteggiava in maniera molto anomala. Si era concentrato su quello e ne aveva ricevuto un colpo al cuore: non si trattava di un ramo ma di un grosso pesce pinneggiante nervoso nella corrente! Ma di che razza si sarebbe dovuto trattare in quel luogo piano e popolato solo di ciprinidi? La situazione si era fatta paradossale perché la mente stentava a credere a ciò che l’occhio in realtà stava vedendo: in modo inatteso una grossa trota si era materializzata dal nulla e quel che più contava, si trovava in chiaro atteggiamento di caccia! Beppe aveva cessato di meravigliarsi e si era messo a rovistare concitato nella borsa degli artificiali per trovarne almeno uno adatto all’occasione. Per fortuna, in mezzo alla copiosa mercanzia destinata ai centrarchidi, da un angolino era spuntato uno shad argentato di 9 centimetri che di lì a poco era stato proiettato con delicatezza ai lati del punto caldo: al terzo passaggio mentre l’artificiale indugiava incerto, la trota aveva abboccato con violenza. Ne era scaturita una lotta emozionante e incerta fino all’ultimo ma alla fine Beppe aveva potuto ammirare la splendida livrea di una fario di oltre mezzo metro: la sua “apertura” aveva goduto lo stesso di un pieno successo. Quando ci aveva raccontato della sua felice avventura gli brillavano ancora gli occhi come accade ogni volta che un lanciatore manifesta ad altri una di quelle perle di soddisfazione che andiamo accumulando in fondo al cuore. All’incirca tutti gli occasionali uditori avevano manifestato un certo grado di meraviglia e sorpresa per l’accaduto, tutti meno uno. Fabrizio, sornione, si era infatti limitato ad annuire sorridendo e quando gli avevo rivolto un muto sguardo interlocutore, mi aveva subito confermato: «Le fario più grosse non le trovi in montagna ma a valle, talora in mezzo ai cavedani, solo che sono in pochi a saperlo!». E poi aveva rincarato: «Ne vuoi la conferma? Cosa fai domenica?»…
Apertura in pianura
Quella mattina non riuscivo a entrare in pesca, continuavo a girarmi per ammirare le montagne che si stendevano incredibilmente vicine lasciandosi ammirare suadenti come sirene: chissà quanti torrenti vi scorrevano dentro e quante trote in essi… Fabrizio però si era dimostrato irremovibile: quella doveva essere una uscita dedicata alla fario di taglia e tale sarebbe rimasta. Con un sospiro rassegnato lo avevo seguito voltando le spalle risoluto alle vicine cime: ancora una volta la calma e piatta pianura sarebbe stato il teatro della nostra avventura. Il fiume ancora limpido e fresco, scorreva indugiando fra una riva in frana e una iniziale prismata creando innumerevoli rifugi interessanti verso cui pian piano veniva attirata la mia attenzione. Ne ammiravo la regolare progressione suddivisa in raschi, piane e buche che andavano disegnando la tipica topografia da affrontare nel migliore dei modi e per far questo tallonavo Fabrizio da vicino cercando di uniformarmi alla sua metodica azione modellata da anni di esperienze positive. L’amico proiettava verso monte un pesante minnow affondante di sua costruzione, lasciandolo poi derivare mantenendo il controllo della lenza così da fargli lambire il fondale nei pressi degli ostacoli sommersi con un incedere incerto e irregolare, molto idoneo a illudere il predone di turno di trovarsi a portata di pinne un boccone succulento e facile. Certo la strategia presentava qualche rischio perché gli incagli risultavano frequenti e non sempre si concludevano con la liberazione dell’esca, ma Fabrizio insisteva cocciuto nell’azione, anche a costo della perdita di diverse sue “creature”. Dal canto mio cercavo di arrangiarmi come potevo, sfruttando sia i classici minnow affondanti da 9 e 11 centimetri in colorazioni naturali, sia alcuni analoghi pesciolini siliconici con pesante zavorra interna e monoamo dorsale. Tuttavia il tempo scorreva inesorabile come le centinaia di metri percorsi senza che si manifestasse l’auspicata abboccata del pesce di mole. Un sottile filo di scoraggiamento mi si stava incuneando dentro: insistere in una zona così a valle avendo a portata di mano torrenti dove qualche pinnuto l’avremmo potuto rimediare comunque, cominciava ad apparirmi una scelta sbagliata. Mi ero fermato a riflettere osservando Fabrizio che proseguiva a pescare con convinzione. Tutto era accaduto in un attimo proprio in quel momento, la sua canna aveva subito un repentino movimento all’indietro, mentre nell’aria risuonava un grido liberatorio: «Eccola!». Che non si trattasse di uno scherzo lo dimostrava il ritmico piegarsi dell’attrezzo sotto la potente trazione del pinnuto agganciato. L’amico, esperto del mestiere, lo stava assecondando senza forzarlo: prima di tentare di condurlo a riva occorreva stancare il pesce così da smorzarne l’ultima violenta difesa sotto sponda alla vista del pescatore, spesso conclusa dalla fuga del salmonide talora con un micidiale ferro tra le fauci. Poco dopo il rapido scatto fotografico che immortalava Fabrizio con una grossa fario fra le mani prima del rapido rilascio, sarebbe rimasta l’unica testimonianza dell’avventura appena trascorsa. L’intuizione di partenza aveva infine trovato conferma: anche la regina delle correnti montane a volte trova stabile e confortevole dimora nei tratti planiziali, a patto che mantengano una buona qualità delle proprie linfe.
Noterelle di attrezzatura
Avere successo con tali interessanti esemplari non è però frutto del caso bensì di convinzione nelle proprie possibilità e adeguatezza delle attrezzature impiegate. Occorre infatti presentarsi sull’acqua con una dotazione all’apparenza esagerata: canne da 240 centimetri, mulinelli di dimensione 4000 e nylon dello 0,30 non sono per nulla fuori luogo dimostrandosi nei fatti adeguati alla taglia di pesci che si sorprenderanno per essere stati scovati nei loro insoliti rifugi. Quanto alla cernita degli artificiali adatti, non dovremo farci problema di preferirne una selezione di generose dimensioni: rotanti dal n 5 in poi, siliconici da 4-5 pollici e soprattutto minnow affondanti da 9-11 centimetri e oltre. In bocca alla fario, regina delle acque correnti…
Di Mario Narducci Foto di Giuseppe Zaletti e Fabrizio Dallera