C’è un altro pesce che, oltre al luccio, in questo mese polarizza l’attenzione del lanciatore di fiume. È il lucioperca che, nonostante il freddo, resta attivo per tutto l’inverno
Sulla grande pianura era sceso il gelo e con esso un freddo penetrante e cattivo in grado di rallentare la vita stessa che ora scorreva attutita e guardinga. Complice la giornata festiva, nemmeno il traffico automobilistico trovava la forza di ripristinare una parvenza del consueto frettoloso caos quotidiano, limitandosi a un rado passaggio di veloci automezzi in apparenza ansiosi di trovarsi presto al riparo dalla vigorosa ostilità del clima. Non più soffocata dalla continua invasione umana, la Natura aveva subito preso a scorrere coi suoi tempi rallentati e millenari, quelli che ormai da troppo tempo abbiamo abbandonato e che nonostante tutto ancora ci corrispondono meglio di ogni altro moderno intrattenimento. Era stato così che dalla fitta nebbia del mattino intorno al fiume erano spuntate alcune irreali figure armate di corte canne e un pugno di artificiali: lo spirito dello spinning aveva colpito ancora e nulla sarebbe riuscito a impedire al gruppetto di vivere fino in fondo la strana magica atmosfera di quella giornata dal sapore antico. In effetti, sarebbe difficile spiegare cosa possa spingere un pescatore sano di mente ad affrontare una sfida all’apparenza impossibile per tentare la cattura di pesci semi congelati e refrattari. Eppure il fatto era quello e nessun componente della piccola ma decisa compagnia per nulla al mondo avrebbe rinunciato a riassaporare la bellezza dell’amicizia, capace di scaldare il cuore anche in una simile ostica occasione.
Dall’aspio al siluro…
Dopo breve concertazione, il gruppo si era disperso allargandosi verso la miriade di postazioni presenti lungo la bassa sponda, dove presumevamo di incrociare le avanguardie degli aspi radunate in vista della imminente frega. L’idea era che, diversificando i tentativi, le probabilità di azzeccarne qualcuno sarebbero incrementate. Dal canto mio ero rimasto fermo e titubante a osservare la scena e le prime serie infruttuose di lanci. No, oggi faceva troppo freddo, sarebbe stato meglio portarsi verso l’acqua profonda, l’unica capace di offrire un certo riparo nella circostanza. Allora, voltate le spalle agli amici, mi ero allontanato verso valle ritrovandomi in breve in completa solitudine. Avvolto nella densa bruma potevo ammirare i ricchi merletti ricamati dalla galaverna sui rami scheletriti degli alberi; le stesse rocce della massicciata, di cui nutrivo un vivido ricordo rovente legato alla precedente estate, non sembravano più le stesse ora che apparivano avvolte da una sottile patina di ghiaccio infido. Muovendomi con cautela avevo raggiunto la liquida superficie proprio in corrispondenza di un lungo rigiro dove la debole corrente sostava pigramente. Sapevo bene che laggiù, da qualche parte mimetizzati nella miriade di ostacoli sommersi, sonnecchiavano parecchi occhi cattivi in apparenza addormentati ma sempre pronti a cogliere una ghiotta e facile occasione propizia. Lo splash del pesante minnow affondante era giunto all’orecchio con un insolito rumore ovattato: sentivo che in quell’atmosfera di sogno avrebbe potuto accadere qualsiasi cosa. L’artificiale stava ruzzolando lungo il fondale trascinato dal flusso e solo per brevi istanti una morbida trattenuta ne provocava un vibrante sollevamento subito seguito da una ondeggiante ricaduta. Il filo della bobina si andava srotolando veloce e quasi se ne stava per intravvedere il nodo iniziale di collegamento: un poco deluso avevo perciò iniziato un recupero sempre rallentato ma più continuo, lambendo in progressione i recessi della sponda. Osservavo concentrato il filo pian piano tornare verso di me e proprio quando già mi stava quasi sotto i piedi, all’improvviso nell’acqua velata si era materializzato un lampo d’argento: un grosso aspio aveva risposto all’ultimo istante alla lusinga e ora si trovava impegnato nella solita agognata lotta senza quartiere all’altro capo della lenza. Era giunto a riva stralunato, come sorpreso di essere stato scovato in quel momento di assoluta tranquillità e anche per quello lo avevo accarezzato con lo sguardo fin quando con una potente scodata era tornato libero verso le profondità. Rinfrancato nell’animo circa le mie possibilità avevo rinnovato i lanci osando ancora di più. Stavolta lasciavo affondare l’esca addirittura nei pressi della massicciata, disinteressandomi con incoscienza dei forti rischi di incaglio e in effetti all’ennesimo affondamento la marcia del minnow era stata bloccata quasi subito. Un breve attimo di incertezza e subito il misterioso ostacolo si era animato mentre la frizione aveva preso a stridere senza sosta. Aveva allora provato un paio di volte a fermare la potente fuga del pesce rallentando il movimento della bobina col palmo della mano ma in breve mi ero ritrovato con la canna piegata fino al manico: il grosso siluro – di altro non si poteva trattare – non voleva sentir ragioni e proseguiva imperterrito nella sua marcia in direzione di una tana sicura. Come temuto di lì a poco la lenza aveva ceduto di schianto lasciandomi deluso a rodermi le mani per l’occasione persa. Rovistando nel gilet di pesca avevo estratto una seconda bobina carica di un trecciato maggiorato che pur penalizzando la distanza di lancio si sarebbe dovuto dimostrare meglio all’altezza della situazione. Mi cullavo nella speranza che dopo il primo, qualche altro esemplare si sarebbe potuto mettere in movimento. Un minnow simile al precedente era dunque tornato a sondare con cura le profondità e dopo pochi lanci l’incredibile si era verificato di nuovo. Stavolta, vuoi per la taglia minore dell’avversario, vuoi per il rinforzo della lenza, la vicenda si era svolta in maniera diversa e dopo una buona serie di scodate e fughe rintuzzate con decisione, il baffone di turno aveva pagato pegno raggiungendomi per qualche tempo sulla riva prima di tornare libero a sua volta. Appagata l’ansia di cattura, avevo proseguito con calma rilassata nella progressione dei lanci, mentre l’animo si era fatto riflessivo e attento a quanto lo sguardo coglieva intorno. Dovunque si posasse risaltava un riflesso di quella bellezza discreta, a torto ritenuta modesta, spesso riservata solo a chi pesca. Un incanto però in rude contrasto col ricordo di momenti lontani, quando simili paesaggi erano saldamente legati all’incontro con altri pesci, specie quelli col becco d’anitra… Perché quel mondo andava scomparendo e ormai restava legato a pochi ristretti ambienti residuali? Perché l’uomo “moderno” non sa accorgersi di quanto gli è stato dato e perciò da conservare per chi verrà dopo di lui? Il sottile sentimento di rabbia unita a mestizia che mi sentivo dentro, si era infine sciolto quando timida si era affacciata una possibile risposta: forse occorreva che tutto cambiasse perché tutto restasse come prima, forse in “nuovi” pesci invasivi erano venuti per riportare i pescatori sulle rive del Grande Fiume, così da rinnovare il numero di quanti lo sappiano stimare e difendere al momento opportuno.
… e per finire perca!
Avevo allora interrotto la mia azione a quel punto monotona e improduttiva, per tentare l’insidia dell’ultimo predatore ancora mancante all’appello. Scartate le esche rigide e comunque celeri avevo optato per un sinuoso jig con tanto di morbido trailer vinilico, perfetto per un richiamo ancora più riflessivo e rallentato. Il trecciato trasmetteva centimetro per centimetro il passo dell’artificiale mentre si posava leggero per accarezzare pian piano ogni ostacolo dell’intricato fondale, cercando di non incagliarvisi. I lanci e i recuperi si erano succeduti ripetitivi per diverso tempo, quando un improvviso appesantimento della lenza era tornato a rinvigorire la fiducia, ormai agli sgoccioli. Avevo insistito: forse stavo buttando via il mio tempo, forse la tocca era quella di un fantasma del fiume più burlone del solito, forse… Il colpo secco sulla canna era giunto quando già gli amici si stavano raccogliendo sulla riva per il ritorno. L’immediata ferrata non aveva stavolta concesso spazi al pesce che oltretutto si era difeso con scarsa convinzione. Di lì a poco il giovane Alessandro, offertosi di prestarmi aiuto, aveva salpato con sicura presa opercolare un discreto perca con cui si era conclusa quella magica uscita invernale.
In tanti ecosistemi nazionali la sandra – non per nulla pure definita lucioperca – è ormai andata a sostituire le popolazioni di esocidi un tempo presenti anche in acque correnti. Si tratta di un avversario per molti aspetti diversissimo dal luccio (basterebbe accennare alle abitudini crepuscolari del primo e diurne del secondo) ma anche con alcune somiglianze di fondo, legate all’andamento del metabolismo in rapporto alla temperatura ambientale. In altri termini entrambe le specie gradiscono linfe fresche e non interrompono nemmeno durante inverni rigidi la propria attività. Questo fatto offre al lanciatore la possibilità di continuare a praticare sul fiume uno spinning mirato con valide speranze di successo anche in periodi difficili. Nello specifico del perca occorrerà tenere conto del carattere opportunistico della sua attività predatoria, talora poco decisa. L’uso dei jig guarniti o meno di trailer si può rivelare efficace sotto questo aspetto, in quanto nelle acque di pianura stiamo assistendo alla massiccia diffusione dei gamberi della Louisiana, come dire un boccone adeguato al carattere riflessivo del nostro predone. L’abbinamento migliore di tali artificiali si ha con le lenze trecciate in grado di conferire sensibilità anche durante azioni di pesca rallentate e una maggiore potenza in caso di intrusione di altre specie, siluro in primo luogo. In bocca al perca infreddolito…
Di Mario Narducci - Foto Cesare Lorandi