Anche gli affluenti artificiali dei fiumi, come canali di bonifica e scaricatori, vedono la risalita dei siluri nella prima fase primaverile

Nell’aria si iniziava a percepire una nuova insolita atmosfera, qualcosa di indefinibile ma di certo piacevole. Forse erano le giornate che poco alla volta avevano preso ad allungarsi o la temperatura che in maniera quasi impercettibile tendeva finalmente a rialzare, fatto stava che dopo la lunga inerzia invernale una serena sensazione si era insinuata nell’animo, provocando un’invincibile nostalgia di tornare a confrontarsi coi pinnuti del momento. Che loro poi fossero tutti lì schierati e pronti alla sfida ne avevamo maturato l’intima certezza dopo quella prima pienetta capace di ripulire l’acqua e rivitalizzare l’intero mondo sommerso. Così, in una ancora fresca giornata di sole ci eravamo ritrovati speranzosi a calcare le sponde del fiume presso posizioni antiche, legate a felici ricordi passati, nella segreta speranza di riuscire a rinverdirli. Un passo dopo l’altro avevamo disceso l’alta sponda fermandoci poi senza scoccare il primo fatidico lancio: l’occhio non si stancava di contemplare i primi segni della vita in procinto di rinnovarsi e il corpo intero godeva dell’iniziale tepore stagionale. La magia del momento era stata però rotta dallo “splash” dell’artificiale di Cesare che ben piazzato nel punto migliore non era riuscito a trattenersi oltre. In un attimo l’incerta pausa meditativa era andata in frantumi e tutti si erano messi a sgomitare per raggiungere la posizione preferita e partecipare alla festa di quella strana apertura sul fiume. Una multiforme serie di artificiali dalla diversa foggia e tipologia aveva preso a tempestare lo specchio d’acqua antistante, ciascuno poi recuperato secondo la cadenza ritenuta idonea all’avversario desiderato. A un osservatore distratto l’azione dei presenti sarebbe parsa alquanto diversificata, ma in realtà esisteva una precisa caratteristica comune: ognuno aveva provveduto a dotarsi di un’attrezzatura all’apparenza stranamente sovradimensionata.

Eravamo infatti ben coscienti di come l’inizio della primavera fosse per definizione un periodo ricco di sorprese – non solo positive purtroppo – in cui risulta difficile delimitare con una certa precisione cosa si possa attaccare a fondo lenza, se non altro a causa dei nuovi sconosciuti ostacoli sommersi creati dalle immancabili piene. Un silenzio carico di attesa aleggiava nell’aria: ci guardavamo di sottecchi per spiare l’eventuale mossa vincente di un compagno in grado di decifrare la giornata, ma nulla veniva a interrompere la monotonia dei recuperi. Eppure il punto avrebbe dovuto essere quello buono: un primo sbarramento che impedendo la risalita dal Grande Fiume verso il corso minore avrebbe dovuto raccogliere un certo assembramento di pinnuti di varia natura e soprattutto disponibili all’attacco. Abbandonata la speranza di avere in poco tempo partita vinta, avevo deciso di concentrarmi nell’insidia degli aspi, i quali essendo ormai al termine della frega avrebbero dovuto attraversare un momento di notevole aggressività per riprendersi dalle fatiche riproduttive. Insistevo cocciuto a sondare la vasta piana che mi stava di fronte con un piccolo ma pesante ondulante raddoppiato in grado di permettermi lunghe proiezioni esplorative. La serie dei recuperi veloci e in superficie aveva poco alla volta lasciato posto a quelli più meditati e a contatto del fondale, forse i ciprinidi erano svogliati e avrebbero gradito un richiamo rallentato. Un primo risultato in effetti non si era fatto attendere a lungo sotto forma di un improvviso incaglio contro un grosso masso sommerso che nonostante il sapiente uso della frizione, il variare dell’angolo di trazione e un estremo tentativo di sgancio giocando con l’elasticità della canna, non ne aveva voluto sapere di mollare l’artificiale, il quale si era così ritrovato a fare un’ingloriosa fine nelle oscure profondità del fiume. Dopo aver verificato lo stato del tratto finale della lenza, me l’ero presa comoda nel riannodare un nuovo moschettone: seguitavo a vedere gli amici pescare l’acqua senza che nessun segno di vita ittica venisse a rivitalizzare la situazione. L’acqua per parte sua si ostinava a scorrere via veloce e indifferente, senza curarsi affatto di noi, forse per quella sfumatura vagamente ambrata che le impediva ancora di vederci bene. A valle in lontananza si ergeva una imponente riva in frana non ancora interessata dalla ricrescita della rigogliosa vegetazione spondale. Mi ci ero diretto senza incertezze: chissà che lì non si fosse rifugiato qualche pinnuto più deciso degli altri. L’esca ora era di natura del tutto diversa, la necessità di sondare l’immediato profondo sottoriva che andava poi rialzandosi con gradualità verso il centro del corso suggeriva di sfruttare un crank di media taglia. Ne avevo perciò scelto uno panciutello, lipless, in vistosa colorazione verde-giallina e con tanto di numerose sferette interne a fungere da richiamo sonoro: insomma un vero e proprio pesce “marziano” che non avrebbe dovuto passare inosservato. Dopo averlo proiettato parallelo alla sponda, mi sforzavo di tenerlo per quanto possibile fermo all’interno del compresso rigiro creato dall’impatto della veloce corrente con le zolle di limo rappreso.

Botta e risposta

Percepivo nettamente le intense vibrazioni dell’artificiale che sia pure con fatica riusciva a scendere in basso, sempre più in basso… L’improvvisa botta sulla canna era stata tanto violenta da farmi ripensare per un attimo al pietrone di poco prima ma una vigorosa trazione e alcuni ritmici strapponi avevano subito chiarito con chi avessi a che fare. Coi suoi modi ben poco educati un siluro si era intromesso di prepotenza nella mia calibrata ricerca dell’aspio e non restava altro da fare che spendersi fino in fondo in quella lotta dall’esito incerto. Non potendo per forza di cose inseguire il pesce lungo la riva, tutto si sarebbe giocato in una rude prova di forza col pinnuto deciso a guadagnare la corrente e io a tentare di bloccarlo per impedirgli di moltiplicare così la propria già notevole resistenza. Una voce amica alle mie spalle me ne aveva dato autorevole conferma: «Non lasciarlo andare perché altrimenti lo perdi.». «Lo so, Raimondo, lo so. Questa è la volta che mettiamo alla prova la robustezza dell’attrezzatura…» – avevo risposto. Il glano, in evidente collera per essersi lasciato prendere letteralmente per il naso, aveva nel frattempo iniziato a rompere la superficie con alcune fragorose scodate. Se si fosse trattato di un esemplare di grossa taglia quello era il momento in cui sarebbe riuscito a mettermi in crisi superando la riserva di potenza della canna e producendosi in una precipitosa fuga che, moltiplicata dalla spinta dell’acqua, non mi avrebbe concesso alcuna opportunità di contrasto. Puntato il calcio dell’attrezzo sul fianco avevo perciò saggiato la resistenza dell’avversario provando a non concedere nemmeno un centimetro di filo. Il pesce con la sua reazione era subito riuscito a piegarmi la punta della canna verso l’acqua, costringendomi a cedere qualcosa girando all’indietro la manovella del mulinello ma si era poi fermato nel rigiro: forse avrei potuto vincerlo. Fallita la fuga al largo il diabolico antagonista aveva allora puntato per un paio di volte a infilarsi in un groviglio di ramaglie che stava di poco a monte. In entrambe le occasioni avevo avuto buon gioco a trascinarlo fuori, portandomi un poco a valle e forzandolo al limite dell’attrezzatura. A quel punto ero stato io a provare a condurre il pesce verso il bagnasciuga ma lui, appena percepita la mia presenza, aveva ritrovato di colpo le proprie energie, producendosi in un ulteriore disperato tentativo di fuga verso la corrente, che cogliendomi impreparato gli aveva di nuovo concesso alcuni preziosi metri di distanza. Tuttavia canna, mulinello e fluorocarbon stavano sostenendo bene lo sforzo e la sola preoccupazione consisteva nella tenuta dell’ancoretta e relativo anellino che in quella lotta prolungata non era affatto scontato riuscissero a reggere. Comunque di lì a poco una avventurosa manovra di “gloving” o presa mandibolare che dir si voglia, aveva posto fine al confronto consentendo di coronare l’avventura con qualche scatto fotografico.

Amico si ricomincia

Dopo aver trascorso i momenti più freddi dell’anno in uno stato di semiletargo presso i profondi rifugi invernali, il siluro risente in maniera positiva dell’iniziale cambiamento climatico stagionale. In particolare la prima parte della primavera risulta alquanto favorevole per incrociare gli esemplari di taglia maggiore che meno risentono delle basse temperature e si risvegliano con un formidabile appetito. Ne consegue che in questo periodo, a patto di essere disposto ad accettare con filosofia un buon numero di uscite a vuoto, il lanciatore si trova nelle condizioni di poter ambire alla ricerca mirata del pesce di taglia extralarge. Tuttavia anche lo spinningofilo senza tali pretese ma che frequenti acque popolate da siluri deve preventivare di potersi trovare a fronteggiare simili avversari anche nel caso indirizzi i propri tentativi verso altre specie. Ne consegue che, nel caso non si voglia rischiare la perdita di pesci comunque interessanti, occorra tenere conto di una tale eventualità provvedendo a dotarsi di attrezzature di potenza ragionevolmente maggiorata. Canne intorno ai 240-270 centimetri in grado di lanciare fino a 40-50 grammi di peso, mulinelli almeno di taglia 4000 e trecciati da 20-30 libbre possono essere una scelta di utile compromesso. In bocca al siluro affamato …

Piccoli e rumorosi rattle baits possono risvegliare l’istinto territoriale del siluro inducendolo ad attaccare

 

CAPACITÀ SENSORIALI
Chi non lo conosce, o non lo pesca affatto, il siluro, è portato a considerare il siluro una sorta di grosso pesce gatto, paragone che regge solo se si considera la sua struttura fisica che, in affetti, ricorda molto da vicino quella degli Ictaluridi: corpo allungato, molto tozzo verso la testa e anguilliforme verso la coda, presenza di baffi attorno alla bocca. Le somiglianze col più piccolo pesce gatto americano finiscono qui, perché per tutto il resto il siluro è un temibile predatore che può tranquillamente vivere anche in acque correnti grazie alla potenza di spinta della coda, che esso a volte usa per tramortire le prede prima di ingoiarle. I lunghi barbigli agiscono da organi sensoriali e gli permettono di “sentire” la preda prima di attaccala, sostituendo quindi in maniera egregia gli occhi (che, invero, appaiono molto piccoli in proporzione alla testa). In generale, quindi, il siluro è strutturato come un efficiente predatore in grado di cacciare in qualsiasi ambiente e in ogni orario, di giorno e di notte.

Di Mario Narducci
Foto di Raimondo Sessi